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3 ottobre 2013

Perché comprare Bio ed a filiera corta

Prima parte: La Filiera Alimentare


Lo sviluppo "moderno" della filiera alimentare e  dell’importazione di uno stile di vita che io chiamo all’americana, dove tutto è disponibile sempre a tutti, messo in vendita in grandi vetrine permanenti si è sviluppato in Italia ed in generale in Europa nella seconda metà del 1900.
L’illusione del “tutto disponibile sempre” si è diffusa a macchia d’olio, una vera immagine del mondo dell’abbondanza e della ricchezza che ha preso piede anche come reazione a secoli di difficoltà di reperimento e di distribuzione del cibo.
La stessa rivoluzione  si era svolta negli USA a partire dagli anni ’30, dopo la grande depressione economica del 1929. A spingerla non furono i consumatori ma le strategie imprenditoriali su larga scala e generazioni di imprenditori: aumentare i consumi sarebbe stato un volano per tutta l’economia. La stessa logica di cui ci parlano le scuole di economia anche oggi, dopo che sono passati ben 100 anni!

Lo stesso Ford, grande imprenditore ed acuto osservatore, progettò tutta la struttura di compensi per gli operai delle sue fabbriche (allora i meglio pagati d’America), espressamente con quest’obiettivo: creare una medium-class con una costante e buona capacità di acquisto e consumo, che potesse così comperare le sue auto e cambiarle nei tempi necessari alla sua azienda per avere l'utile che si aspettava.

Ogni strategia all’apparenza buona ha però i suoi lati negativi. 
Ogni organizzazione che crea un surplus da una parte crea un danno da un’altra e questo è visibile nel tempo. Oggi la cosa è chiara anche a chi gira lo sguardo dall’altra parte. 
Questi danni dovrebbero essere previsti, ragionati e mitigati o eliminati.

Le catene commerciali dell'alimentazione, rivolgendosi ad una larga popolazione, potevano contare su un utile sicuro proponendo una gamma di prodotti molto ampia, potenzialmente estesissima. Potevano quindi gestire strategie di prezzo verso i clienti ed agire sui costi all’origine per mantenere il mercato per così dire "calmierato".
Tutti, proprio tutti ci siamo tuffati nei supermercati, che ne avessimo bisogno o no.
Pensavamo spesso che fosse anche più comodo avere un unico punto dove comperare tutto e che in questo modo avremmo potuto risparmiare tempo. Il tempo infatti diventava ogni giorno più scarso perché per consumare dovevamo lavorare sempre di più.

Ecco il primo svantaggio: dover lavorare di più per reggere i consumi necessari a mantenere lo stile di vita e lo status sociale.
Dal semplice supermercato siamo passati agli ipermercati, poi ai centri commerciali forniti di ogni cosa non soltanto alimentare.
Fare un giro al centro commerciale è diventato un passatempo ed un simbolo di status sociale che i filmetti sui canali televisivi non hanno mai dimenticato di promuovere.
Fare un giro al centro commerciale vuol dire sempre comperare qualche cosa che non avremmo comprato se fossimo andati a fare una passeggiata in campagna o una visita ad un museo.

Il presupposto che il consumismo mette in campo è la crescita continua. Se un’organizzazione non cresce non può esistere. L’utile di qualsiasi società deve crescere continuamente e per questo è necessario che crescano i consumi che infatti per un po’ di tempo sono cresciuti senza sosta e senza criterio. Sempre di più in quantità e/o in tipologia di prodotto.

I supermercati hanno intanto influenzato la normale organizzazione della vendita di alimentari e sono cominciati a scomparire i piccoli negozi che non potevano competere con le politiche di prezzo delle catene commerciali su larga scala.

Altri svantaggi:
1) il mercato va in mano a grandi organizzazioni ed il singolo piccolo negozio scompare a meno di appostarsi su una gamma di prodotto veramente di élite che avrà però anche un prezzo da élite;
2) noi non siamo più persone ma consumatori;
3) ed i nostri consumi, soprattutto voluttuari cominciano a lievitare.

Il consumatore, da parte sua, rispondendo ad un’esigenza atavica, vuole distinguersi per passione, per gusto o per stile di vita e status sociale.
La catene commerciali del cibo, ormai non semplici rivenditori ma società organizzate, spesso enormi con tutte le funzioni e le linee normalmente presenti in una grande impresa, hanno sfruttato questa esigenza.

Negli anni ’70 nei supermercati sono comparsi sempre più frequentemente prodotti ricercati di ogni genere a cominciare dalla frutta esotica e fuori stagione.

Ecco altri danni:
1) le catene di vendita da una parte non hanno più bisogno di tenere calmierati i costi ma hanno bisogno soprattutto di far crescere gli utili. Dietro una apparente competizione è nato una specie di cartello dei prezzi ed una battaglia per abbassare i costi.

Le catene di vendita da allora hanno aumentato esponenzialmente la tendenza ad accaparrarsi rifornimenti costanti di ogni tipo di prodotto.
É finita la stagionalità ed il prodotto con pochi passaggi dalla terra alla tavola, è finito il prodotto locale.
Impossibile la vera tracciabilità, anche quando vengono date informazioni differenti e magari rassicuranti perché non potrei mai andare in Sud Africa a verificare che i garofani che ho comperato sono proprio coltivati nel rispetto delle regole dichiarate e nemmeno in Germania per vedere tutto il ciclo produttivo della carne macinata
Nascono teorie di intermediari specializzati ognuno in un singolo tratto del percorso, ognuno di essi deve crescere per esistere, deve avere un utile che cresce sempre. Questi attori della filiera cercano, trattano, procurano i prodotti e li stoccano in modo che durino sottoponendoli a trattamenti diversi ed a molti make-up perché la concorrenza vuole che la pesca e la ciliegia, in ogni stagione, siano anche belle e grosse.

Se vi capita di fare un giro negli USA, assaggiate le bellissime e grossissime fragole e capirete perché i dolciumi e le gomme da masticare alla fragola e spesso anche le marmellate sanno di sapone.

Sono nati prodotti impensabili, come la carne separata meccanicamente (MSM), una pasta di colore impreciso che viene variamente rigenerata e gonfiata perché abbia un aspetto ed un sapore che non allerti il consumatore. Tutti i prodotti commerciali a base di carne trita dai ravioli, agli hamburger, dai polpettoni ai ripieni ne contengono, senza parlare di proposte che chiameremo creative ed innovative su cui l’industria alimentare costruisce una grande storia pubblicitaria per diffondene il nuovo gusto e lo smercio.

Ed in tutto questo giro, che fine hanno fatto i produttori?

I produttori hanno dovuto seguire l’evoluzione, loro malgrado.

All’inizio è sembrato loro un vantaggio avere qualcuno che comperava tutto o quasi tutto il raccolto, ma la cosa naturalmente non è durata.
Quindi per poter continuare a vendere hanno dovuto accettare di abbassare i prezzi, per non dover buttare via tutta la produzione (vi ricordate gli interi raccolti di pomodori buttati in discarica?), nella difficoltà o addirittura nella impossibilità di vendere a sufficienza tutta la produzione direttamente ed impossibilitati a vendere ad altri intermediari se non a prezzo quasi zero.

Poi sono passati a seminare e coltivare, sia che il terreno fosse adatto o non lo fosse, soltanto colture imposte dal "sistema" commerciale. Naturalmente a qualsiasi costo, pur di sopravvivere.
Dimentichiamoci la rotazione delle coltivazioni e la differenziazione del prodotto: tutto deve essere standard, grosso e bello. Al gusto si rimedierà durante la elaborazione del prodotto.

Ancora un danno:  Così i terreni vengono impoveriti e quasi desertificati.
(In Sicilia grandi distese di terreni una volta famose per la produzione di grano sono ora incolte. Spesso le aziende agricole hanno dovuto chiudere, svendere e comunque sparire)

Per fare tutto ciò, poiché il produttore è lui stesso un consumatore, anche i produttori hanno dovuto
  • comperare le sementi che prima spesso venivano auto prodotte, anche perché molte sementi oggi sono state rese sterili con la tanto vantata tecnologia della modificazione genetica operata da chi vende sementi
  • e comperare quantità di concimi chimici e soprattutto insetticidi e pesticidi, che negli anni ’60 ha significato soprattutto DDT che ancora è presente nei terreni ed è migrato, inquinandola, nelle falde acquifere.

Da qui cominciamo a capire perché grossi gruppi hanno investito in mercati così concepiti.
Mercati dove uno guadagna e tutti gli altri perdono, cioè produttori, consumatori finali, la terra ed i nostri figli. Tutto in nome del consumo che deve per forza crescere, un dio di cui una volta non conoscevamo nemmeno l’esistenza.

Commerciare, produrre, trattare scambiare sono sacrosante azioni, ma devono essere basate su principi etici che possono esistere soltanto se penseremo non in modo egoistico ma sociale, se smetteremo di dire IO e riprenderemo davvero a pensare a NOI, come nella tradizione della cultura mediterranea.

Che post lungo! Un'altra volta racconterò come sono nati altri sistemi agricoli e di distribuzione.

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